BOA SORTE.Storie di emigranti italiani in Brasile - SANTE SCALDAFERRI, UN ITALIANO DI BAHIA, UN BAIANO D'ITALIA - Parte 2
a cura di Andrea Lilli
Sante Scaldaferri -Opera "O Monge- Foto di Dadá Jaques 2012
Sante Scaldaferri, nato a Salvador di Bahia nel 1928, oltre ad essere uno dei maggiori pittori brasiliani contemporanei, è stato scenografo e attore. Sulle sue origini, ama ripetere di essere stato "fabbricato in Italia e sbarcato a Bahia". Nel 1897 lo zio Giovanni Battista s’imbarca appena quattordicenne su una nave diretta in Brasile, stabilendosi a Jequié, nel sud dello Stato di Bahia, dove apre un piccolo negozio.

Completiamo la storia del poliedrico artista italo-baiano, proponendo un lungo dialogo con la giornalista  brasilianista Antonella Rita Roscilli, composto da due distinte  interviste apparse sui periodici italiani CineArte (2009) e Patria Indipendente (2010). Un ritratto che diventa un’avvincente autobiografia, e una testimonianza illuminante sui fermenti innovativi nell’arte figurativa nella cultura baiana del Novecento.
SANTE SCALDAFERRI - Sono nato nel 1928 in una casa del Porto da Barra. Mia madre era arrivata dall’Italia già incinta. Perciò io sono stato “fabbricato” in Italia” e “sbarcato”a Salvador, nello stato brasiliano di Bahia. Quando avevo un anno e mezzo mio padre si ammalò e così tornammo a Trecchina, in provincia di Potenza, in Basilicata, dove morì. Ho pochi ricordi di quell’epoca. Le vacanze a Maratea e il nostro soggiorno a Napoli, dove mio zio aveva una bella casa al Vomero. Malgrado ciò la forza atavica è potente e io sento di avere due identità che non si scontrano, anzi, vivono in armonia. Mi piace ugualmente il samba e l’opera, e la mia identità italiana mi ha portato varie volte alla conoscenza della mia origine. In Italia mi sento a casa.
Lei è uno dei più importanti e rappresentativi tra i pittori brasiliani contemporanei. Com’è arrivato all’arte plastica?
Fin da bambino ho sempre pensato di diventare pittore. Così, quando ho terminato il ginnasio, ho fatto la prova per entrare alla “Escola de Belas Artes”. Il cammino per conquistare una posizione nel panorama delle arti plastiche è molto difficile e divenni noto avendo partecipato ad esposizioni in varie città brasiliane. Così la critica conobbe il mio lavoro.
Lei appartiene alla seconda generazione di artisti moderni di Bahia. Può parlarcene?
La seconda generazione di artisti plastici moderni di Bahia sorse nel 1957. In quell’epoca i miei rapporti con gli artisti della prima generazione erano molto cordiali. Ma con il tempo alcuni artisti mi si schierarono contro, denigrando la mia adesione a nuovi linguaggi. Tuttavia, col passare del tempo, i mass-media, attraverso la critica nazionale, vennero a conoscenza del mio lavoro. Ho preso molte batoste, ma ne ho date io di più. Oggi non sono un artista realizzato, ma mi considero vincente per quanto riguarda questo discorso.
A quell’epoca esisteva una generazione che voleva produrre qualcosa di nuovo anche nella letteratura, nel teatro, nella pittura e nel cinema…
Nonostante la rottura della prima generazione di artisti plastici con l’accademismo, quella posteriore incontrò ancora molte e serie difficoltà. L’anno prima avevo già conosciuto e partecipato alle attività artistiche e culturali di un gruppo di giovani di valore, che prese il nome di Generazione MAPA. Questi giovani di allora dettero tutti un grande contributo allo sviluppo dell’arte moderna a Bahia, in tutti i linguaggi artistici, e chi di essi rimane continua ancor oggi ad aggiornarsi e a produrre. Questi giovani in realtà ebbero la fortuna di partecipare al maggiore e più fecondo periodo culturale di Bahia, durante il rettorato del dr. Edgard Santos.
Ci racconta del ruolo che ebbe all’epoca il rettore Edgar Santos nella cultura di Bahia?
In quell’epoca i mezzi di comunicazione di massa non erano come oggi, pertanto c’era sempre un po’ di ritardo nei contatti. Eppure esistevano varie riviste, e le mostre erano importantissime per prendere conoscenza di ciò che si faceva in Brasile nel mondo artistico. Sicuramente le informazioni arrivavano con un po’ di ritardo. Chi poteva viaggiare al sud era avvantaggiato. Quando il dr. Edgard Santos divenne rettore della UFBA, questa lacuna fu colmata con programmi culturali organizzati dall’Università Federale di Bahia e dal Museo di Arte Moderna di Bahia. Durante il periodo scolastico io già partecipavo alle esposizioni e dipingevo all’aperto, da lì non mi sono più fermato e grazie a Dio, in salute, ad 81 anni continuo a lavorare ogni giorno.
L’interesse centrale nella sua opera è l’ex-voto, più tardi seguito anche da altri artisti plastici. Dal 1957 nella sua pittura è presente come segno e simbolo. Com’è nato e perché questo interesse?
Dal 1957, influenzato da una materia chiamata “Estudos Brasileiros”, ho iniziato ad elaborare il contenuto della mia pittura. È molto importante la preservazione delle manifestazioni spontanee della nostra cultura popolare e soprattutto quella del Nordest è di una ricchezza immensa. Tutte le manifestazioni popolari del popolo nordestino, come l’artigianato, l’arte e cultura, il messianismo, la religiosità, io le rappresento appropriandomi dell’ex-voto che nel mio lavoro è un segno/simbolo per esprimere tutta questa ricchezza, tutto il mio pensiero e tutto il mio sentimento. Ho sempre pensato questo, fin dagli inizi della mia carriera. La nascita dell’opera d’arte nella mia pittura discende dalla trasfigurazione di una tematica che abbraccia cultura e arte del Nordest brasiliano, associato al linguaggio contemporaneo internazionale. La forma cambia con la nascita di nuovi linguaggi, ma il contenuto rimane identico. È una ricerca incessante dell’identità culturale brasiliana e questo accade ancora oggi, sempre coerente al mio pensiero, senza fare alcun tipo di compromesso.
La sua opera pittorica si divide in diverse fasi. Ne possiamo parlare?
Nella “Escola de Belas Artes” di Salvador durante il mio ultimo anno, frequentavo una materia chiamata “Estudos Brasileiros” che dava una visione generale del Brasile. I temi erano di sociologia, linguaggi artistici, tecniche, cultura popolare, artigianato, antropologia, etnologia, religioni africane etc. C’era un piccolo museo dove erano esposte ceramiche e opere di artigianato. Tra le altre c’era una piccola collezione di ex-voto. Nacque da lì la mia passione per gli ex-voto: era il 1955. Mi appropriai di loro nel mio linguaggio e così divennero il segno/simbolo per esprimere tutti i miei sentimenti in linguaggi contemporanei, attualizzandoli sempre. Da tutto ciò sorse nel 1957 la mia prima fase che chiamo POPOLARE. Dal ‘60 al ‘64 venne la seconda fase, ASTRATTA, che si compone di due segmenti: l’aerofotogrammetrico e il cosmico. Poi è seguita la fase cosiddetta antropomorfica. Sì, agli inizi degli anni ’80 ci fu un cambiamento brusco
nella forma della mia pittura. Fu quando, pur continuando con lo stesso contenuto, adottai la TRANSAVANGUARDIA, che è una tendenza più recente dell’espressionismo o neo-espressionismo. In questa direzione sorsero varie altre sottofasi: “Pop”, “Monocromatiche”, “Linee marcate”, “Senza linee”, “Colorate”, e “Le debolezze del carattere umano”. Ma tutto ciò si inquadra in una fase generale per la quale adotto il nome di ANTROPOMORFICA. Spiegando ad un giornalista argentino, che all’epoca mi intervistò, questo mutamento nella forma della mia pittura, gli dissi: “Prima erano ex-voto con la faccia di persone, ora sono persone con la faccia di ex-voto”.
È un’arte molto seria e forte che possiede un contenuto profondo. Sono ex-voto che assumono la condizione umana per esprimere dolori, angustie, invidie, terrore, corruzione di tutti i tipi, violenza, omicidi, insomma tutto ciò che è inerente all’essere umano. È il riscontro plastico/visuale tra il bene e il male. La forma di questa fase, che la distingue dalla forma di altri pittori, è la mia “scrittura”personale, ma il contenuto non è un fatto inedito, risale a duemila anni fa. Prenda queste citazioni: Marco 7, 21-23. Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo. Chi abbia capacità e voglia studiare tutta la mia opera dall’inizio, ne verificherà il suo contenuto sociale, filosofico, politico e non di partito, religioso, messianico, ironico. La mia sola preoccupazione nella costruzione del mio lavoro, dall’inizio ad oggi, è l’ESSERE UMANO.
Una sua esposizione ha celebrato i 50 anni della così detta Generazione Mapa a Bahia. Può illustrarcela?
Non è possibile in una sola intervista parlare della Generazione MAPA perché furono molti gli eventi in pochi anni e occorrerebbe fare una ricerca. Ma farò un piccolo riassunto dell’inizio del Modernismo in Brasile. Negli anni ’30 a Salvador dominavano gli artisti accademici, in maggior parte professori della “Escola de Belas Artes”. Alcuni, i più conosciuti e importanti, andarono a studiare a Parigi. Al ritorno si definirono impressionisti. Negli anni ‘30 esistevano già i Nabis, i Fauves, l’Astrattismo, il Cubismo, l’Espressionismo, il Futurismo, il movimento Dada, il Surrealismo, per citare solo alcuni dei nuovi linguaggi che non vennero assorbiti da questi artisti.
Nel 1922 si tenne a São Paulo la Settimana di Arte Moderna. Nel 1932 torna da Parigi il pittore baiano José Tertuliano Guimarães. Io ho scritto un libro su di lui e l’arte moderna a Bahia, dal sec. XIX al 1964. José Tertuliano Guimarães, pur non avendo assorbito nessuno dei nuovi linguaggi contemporanei dell’epoca, riuscì a intendere la pittura di Cézanne che lo influenzò molto. Fu lui ad innovare quello che qui era chiamato impressionismo. José Guimarães rinnovò l’arte, realizzando anche per la prima volta lavori creati a partire dalla cultura afro-baiana, che illustrarono il numero 4 della rivista Seiva del maggio 1939, interamente dedicata ai neri. Così egli fu il primo artista baiano a diminuire la discrepanza tra i nuovi linguaggi e l’arte anacronistica che era praticata a Bahia.
Come è avvenuta l’integrazione della sua arte con il computer?
Ho sempre adottato un nuovo linguaggio non appena sorgeva, mantenendo comunque la stessa tematica. Perciò non potevo non utilizzare questa favolosa macchina che è il computer. Così ebbe inizio la produzione di INFOGRAVURE. Le Infogravure sono realizzate con innumerevoli elementi o immagini, sia esistenti nel computer che aggiunte. Si può avere sovrapposizione di immagini o composizione, ma la cosa più importante da dire è che nella Infogravura bisogna avere necessariamente l’intervento manuale dell’artista. Non è solo computer, non è Fotoshop, come pensano gli incompetenti. È Arte Grafica.
Può descrivere la sua esperienza con la tecnica encaustica?
Ho appreso varie tecniche di pittura nella “Escola de Belas Artes” e, tra queste, l’encaustica con la quale ho realizzato alcuni lavori fino al 1959. Nel 1980 quando ho mutato la mia pittura, ho capito che la migliore tecnica per esprimermi era l’encaustica e così tornai ad utilizzarla. La tecnica di encaustica risale agli antichi Greci e Romani ed ha innumerevoli qualità. Inoltre, al contrario della pittura ad olio che riflette la luce, l’encaustica la assorbe e pertanto può essere vista da qualsiasi angolo. Consiste nell’unione della cera di api con una resina trasformata in vernice. Quando è pronta bisogna aggiungere il pigmento e iniziare a dipingere.
Oggi nell’arte brasiliana cosa attira maggiormente la sua attenzione?
L’arte brasiliana non esiste. L’arte oggi è globalizzata. Perciò quello che mi può attirare in alcuni artisti brasiliani, mi può attirare in altri pittori di altri Paesi.
Jorge Amado ha identificato in lei una “libertà di espressione che non rimane attaccata al gioco retorico. Il mondo popolare e baiano, Sante lo conosce attraverso esperienze vitali ”. Cosa pensa di questa frase?
Non posso dire altro che questo: sono veramente lusingato!
 
Nel 1957 Sante Scaldaferri si laurea all’Escola de Belas Artes dell’Università Federale di Bahia. Entra poi nella Scuola di Teatro della Ufba ove studia Scenografia con Gianni Ratto. Insieme all’architetto Lina Bo Bardi, di cui è assistente dal 1958 al 1964, fonda il Museo de Arte Moderna di Bahia nel Solar da Unhão e negli anni ’50 partecipa alle iniziative pionieristiche di Glauber Rocha, padre del “Cinema Novo”, il movimento brasiliano che rivoluziona la cinematografia nel Paese, influenzato dal Neorealismo italiano e dalla Nouvelle Vague francese. Sante collabora con Glauber Rocha come scenografo e attore, ma soprattutto divide con lui una lunga amicizia che ricorderà nella nostra intervista.
Può raccontarci le origini della sua amicizia con Glauber Rocha?
Prima di tutto vorrei dire che su Glauber Rocha potrei parlare all’infinito perché la nostra amicizia è stata profonda ed è durata fino alla sua morte. La mia conoscenza con lui fu tumultuosa, come tutto nella sua vita. Ero ancora studente alla Escola de Belas Artes, nel centro storico di Salvador e ogni giorno, dopo la fine delle lezioni, andavo a Rua Chile che a quell’epoca era il punto di ritrovo della città. Varie volte mi accorsi che venivo osservato da un giovane con uno sguardo strano, che era accompagnato da più di due o tre ragazzi. Un giorno, quando meno me lo aspettavo, uno di loro, proprio Glauber, venne verso di me dicendo: «Tu sarai attore nel mio film». Così ebbe inizio una solida amicizia e molti progetti culturali. Molte riprese del film si dovevano svolgere nella zona del meretricio, ma in realtà quel film non venne mai girato, anche se la sceneggiatura esiste. Per quello che ricordo della storia, la madre di una prostituta moriva e il mio personaggio, innamorato della meretrice, entrava nel corteo del funerale con dei fiori in mano. Però invece di collocarli sulla bara, li dava alla sua amata. Glauber aveva allora 18 anni.
E Glauber cosa faceva in quel periodo?
Era ancora studente di Diritto, ma faceva anche il giornalista. Iniziò subito con la cronaca, all’inaugurazione del “Jornal da Bahia”. Poi andò al “Diario de Noticias” dove scriveva una colonna di cinema sotto lo pseudonimo di De Sanctis. Poco tempo dopo collaborò al Supplemento Culturale che usciva la domenica, scrivendo articoli e traducendone altri di autori di diversi Paesi. Una notte, ritornando dall’appuntamento con la mia fidanzata Marina, che poi divenne ed è mia moglie, appena sceso dall’autobus venni circondato da cinque ragazzi che con gesti e parole quasi mi aggredirono fisicamente. Pensavano che io, a causa della somiglianza del mio nome, ero l’autore della colonna firmata da Glauber sotto lo pseudonimo De Sanctis. In realtà giorni prima Glauber aveva scritto un testo criticando il film che sarebbe stato realizzato da quei ragazzi che mi aggredirono.
Il “Cinema Novo” brasiliano nacque nello Stato di Bahia. Perché nacque qui? Cosa accadeva in quell’epoca a Salvador nel mondo artistico?
La nostra generazione ha conosciuto il cinema nel “Cinemaclube” di Bahia dove il critico Walter da Silveira, prima della proiezione dei film, faceva delle pre-lezioni, spiegando il significato del film. Parlava anche del regista, degli attori, il montaggio, i corti, il suono, l’illuminazione e altri temi appartenenti al linguaggio cinematografico. Avemmo così il privilegio di assistere a tutta la Nouvelle Vague, al Neorealismo italiano, gli westerns, i classici muti, i film di Sergej Ejzenstein, come “La corazzata Potemkin” e “Que viva Mexico”, di Akira Kurosawa, di John Huston e Jonh Ford che Glauber ammirava molto, di Charlie Chaplin, innumerevoli documentari e molti altri generi. Mi ricordo molto bene che io e Glauber assistemmo insieme a “I sette samurai”. Glauber si agitava molto, si alzava dalla poltrona in continuazione e gridava “Che genio! Che genio!”. Non so quante volte dovetti riacciuffarlo per la cintura e metterlo di nuovo a sedere, dicendo che dava fastidio agli altri spettatori.
Quando venne realizzato il primo lungometraggio a Bahia?
Il primo lungometraggio baiano, “Redenção” fu realizzato da Roberto Pires alla fine della decade degli anni ’50. Roberto Pires fu grande amico di Glauber e, siccome suo padre aveva un negozio di ottica, riuscì a fabbricare in laboratorio una lente cinemascopica. Vennero così realizzati altri film nella città come “Grande Feira” e “Tocaia no Asfalto”, ambedue di Roberto Pires e “Sol sobre a lama” di Alex Viany.
In cosa hanno contribuito per lo sviluppo culturale di Bahia, Glauber Rocha, lei e altri artisti  dell’epoca?
A Bahia l’inizio dell’arte moderna, in tutti i linguaggi, avvenne nella decade degli anni ’40. Prima nella letteratura dove furono pubblicate le riviste “Arco e Flexa” e “Cadernos da Bahia”. La nostra  generazione, oggi conosciuta come “Geração Mapa”, pubblicò una rivista con lo stesso nome che includeva tutti i linguaggi artistici. Ricordo che la sera eravamo soliti riunirci in una gelateria che esiste ancora oggi, chiamata “Cubana”. Si trova nel marciapiede vicino all’Elevador Lacerda, con una bellissima vista sulla Baia de Todos os Santos. Lì commentavamo i fatti culturali della città. Grazie alle nostre attività culturali divenimmo responsabili del consolidamento dell’arte moderna a Bahia realizzando vari eventi, in maggior parte sorti dall’immaginazione di Glauber. Avemmo, per esempio, le “Jogralescas” che erano poesie moderne teatralizzate, la prima esposizione di poemi illustrati, una mia esposizione individuale, la pubblicazione della rivista di cultura MAPA e le Edizioni Macunaima, ideate da Fernando da Rocha Peres e dal pittore Calasans Neto che illustrava e stampava album e libri rifiniti in edizioni a tiratura limitata. Furono inoltre realizzate le prime esposizioni individuali di pittura di nuovi artisti plastici.
Può raccontarci qualche episodio su Glauber?
Ricordo che viaggiavamo varie volte con altri amici all’interno del Brasile sempre alla ricerca della nostra identità attraverso l’arte e la cultura popolare. Una volta arrivammo nella città storica di Cachoeira e la pensione in cui stavamo era un’enorme casa del secolo XIX, situata nella piazza  principale. Il mattino dopo, quando ci svegliammo, ricordo che arrivò sulla soglia del balcone Glauber nudo e avvolto in un lenzuolo, dicendo che era un tribuno romano e proferì un eloquente discorso,  davanti a una platea entusiasta. In quello stesso giorno facemmo una passeggiata in barca sul fiume Paraguaçu. Glauber allungava le braccia e, con il pollice e indice stesi, come fosse una telecamera, filmava nella sua immaginazione scene fantastiche che ci andava descrivendo. Glauber vedeva immagini cinematografiche in tutto. Qualsiasi episodio abituale, lui, immediatamente, lo trasformava in sceneggiatura. Viveva il cinema tutto il tempo. A quell’epoca Glauber mi diceva che stava apprendendo molto col cinema di Nelson Pereira dos Santos che ammirava molto. Un altro cineasta che gli piaceva tanto era Paulo César Saraceni che all’epoca aveva girato “Porto das Caixas”. Un altro episodio con Glauber fu quando andammo ad assistere a “Rio 40 Graus” di Nelson Pereira dos Santos. Erano appena stati lanciati i sandali alla giapponese e Glauber li portava ai piedi. Così quando stavamo per entrare, il  portiere del cinema gli negò l’accesso dicendo a voce alta che poteva entrare solamente chi aveva calzature decenti. Allora Glauber cominciò a parlare gridando le sue ragioni e le persone che passavano assistettero attonite alle urla senza capire nulla di quello che Glauber diceva.
Quando e come iniziò la sua collaborazione nei film di Glauber?
Il primo film di Glauber fu il corto sperimentale “O Patio”, nel quale utilizzò il linguaggio del concretismo. Questo film fu di grande impatto tra i cineasti di Rio che all’inizio non capirono assolutamente nulla. Poi giunse l’incompiuto “A cruz na praça”, poi “Barravento”, “Deus e o Diabo na terra do sol”, “Terra em transe”, “O Dragão da Maldade contra o Santo Guerreiro”. Io ho partecipato a tutti questi film, eccetto “Terra em Transe”, ricoprendo vari ruoli. In “Deus e o Diabo na Terra do Sol”, realizzato nella città di Monte Santo, dove viaggiai con l’architetta Lina Bo Bardi, mi rifiutai di fare l’attore per non togliere lavoro ad un professionista, ma rimasi durante quasi tutte le riprese, aiutando in tutto. Già in “Dragão da Maldade contra o Santo Guerreiro” non riuscii a rifiutare: lavorai come attore e dipinsi i pannelli. Fu il primo film brasiliano con suono diretto. In questo insieme di film sorse il “Cinema Novo” poi esteso a tutto il Brasile non solo attraverso i film di Glauber, ma anche di altri cineasti.
Dove ritrovava il tratto geniale di Glauber nella vostra convivenza durante le riprese dei film?
Glauber possedeva un’intelligenza privilegiata, un raziocinio rapido e una loquacità con cui perfezionava con incredibile velocità innumerevoli idee. Cito un esempio: durante le riprese di “Dragão…” il mio personaggio Batista doveva essere ucciso dal delegato, interpretato da Hugo Carvana. L’arma era caricata a salve. Prima della scena, Hugo volle sperimentare l’arma e sparò contro la parete. Con grande paura di tutti, si aprì nella parete un buco. Le munizioni erano fatte con pezzi di legno e avrebbero aperto un buco nella mia pancia! Glauber stava assistendo a questa scena, allora gridò portandosi le mani alla testa e disse: “Hugo, quando prendi l’arma dalla fondina punta verso il pavimento così quando arriverà nella pancia di Sante non ci sarà pericolo. Il pubblico non percepirà nulla a causa della velocità e del suono diretto”. Insomma, risolse il problema in pochi secondi! Poi Glauber andò via e divenne famoso in tutto il mondo.
Quando lo vide l’ultima volta?
Ricordo che quando venne per filmare “Idade da Terra”, Glauber mi cercò e disse che dovevo interpretare uno dei Re Magi. Accettai e combinammo che la produzione mi avrebbe avvisato. Nel giorno combinato mi venne una strana febbre alta e non potetti andare. Il giorno dopo non avevo più la febbre e mi sentivo bene. Così uscii e, mentre stavo comprando il giornale, incontrai Glauber che mi assalì con parolacce orribili. Così gli spiegai cosa mi fosse successo. Lui comprese e, con un gesto che ripeteva sempre, mi pose le mani sulla spalla dicendomi che aveva varie bobine vergini e voleva realizzare il vecchio progetto di filmare un documentario sulla mia pittura. Gli risposi che prima si doveva concentrare solo sulle riprese del suo film e dopo, allora sì, avremmo iniziato il documentario. Fu quella l’ultima volta che lo vidi.
Chi era veramente Glauber Rocha?
Le risponderò ricordando un episodio. Subito dopo la sua morte, Paulo Gil de Andrade Soares che fu un eccellente assistente di Glauber, venne a Salvador per un servizio della TV Globo. Mi pose questa domanda: «Secondo lei chi era Glauber Rocha?». Io risposi: «Un uomo alla ricerca di Dio». La mia risposta venne tagliata, ma venti anni dopo la sua morte uscirono i primi libri su di lui che, in varie maniere, affermavano ciò che avevo risposto io a quella famosa domanda.
Andrea Lilli. Bibliotecario-archivista e documentalista, lavora nella Sovraintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma.